A mare è una splendida giornata. Squilla il telefonino. Qualcuno mi avverte che il mio amico Ettore sta molto male. Lo chiamo subito. Mi risponde una voce di donna. E' gentile. M'informa che è ricoverato in ospedale. Torno a casa e mi preparo per andare a Catanzaro. Voglio vedere il mio amico.
Amico è dir poco. Io e lui ci conosciamo da sempre. Andavamo alle gite organizzate dalla chiesa del monte per i giovani dell'azione cattolica della città. Un giorno i monaci ci portarono in Sila. Io, munita del giornale Sorrisi e canzoni, pieno zeppo dei testi dei cantanti più in voga in quei tempi. Ettore potava la sua chitarra. Io cantavo, o meglio tentavo. Ero stonata come una campana, ma lui sopportava, sorridendo, mi diceva "Hai coraggio...".
Forse si, nella vita il coraggio mi ha sempre accompagnato, ma quando ti ho visto in ospedale, con quel viso scarno, con quel colorito giallo-verde, tipico degli ammalati di cancro al fegato, mi sono sentita senza forze. Non riuscivo a parlare, solo la mia mano reagiva al silenzio, accarezzandoti il viso, le braccia. Tu mi guardavi e mi sorridevi.
Sapevi del tuo male e non avevi speranze di guarigione. Ogni parola di speranza detta in quella stanza, suonava falsa, inutile. Tu ascoltavi e mi guardavi con occhi quasi sorridenti, come per dirmi "Ma a chi prendono in giro?"
Ti ho salutato senza parlare, con un semplice bacio sella fronte. Un bacio che chiudeva cinquant'anni di amicizia, fatta d'incontri sul corso, a Catanzaro o a Soverato. Poi, fuori dalla tua stanza, un pianto liberatorio. Lungo, doloroso.
Ettore, ti ricorderò col tuo sorriso e la gioia che hai trasmesso al circolo Le dame, quando ci hai deliziato con le tue ricerche sui testi calabri del passato e le tue musiche.
Sei stato un grande. Uno studioso, un vero intellettuale, modesto, semplice, come il saggio del passato che amava trasmettere le sue conoscenze, senza chiasso, senza trarne un utile economico. Se la nostra città stimasse i suoi figli migliori, ti dovrebbe ricordare, dedicandoti un vico, una strada, se non altro per ringraziarti di tutti gli anni in cui hai partecipato alla Naca, suonando quella tua tromba che emozionava anche i sordi, per quella felicità con cui la suonavi. Per dare serenità con la musica ad un Cristo che moriva nella sofferenza. Ora sicuramente suonerai lassù, per intenerire i cuori dei nostri cari che al tuo arrivo ti avranno accolto con gioia, quella stessa gioia di cui noi, quaggiù, siamo privi.

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